
Il suono materico: fare esperienza dell’Uno attraverso l’utilizzo delle campane tibetane
L’esperienza con le campane, che conosco da solo pochi mesi, si sta trasformando in qualcosa di veramente intenso. Sono anni che mi interesso di musica, suono, vibrazione per poi dedicarmi prevalentemente alle discipline bio-naturali. Non ho mai approfondito granché a livello teorico.
Sono una persona che ha bisogno di vivere certe cose “con la pancia”, forse proprio perché inconsciamente consapevole di quanto, generalmente, il mio vissuto sia prevalentemente di tipo mentale. Mi sono interrogato per anni su quale potesse essere un modo giusto di trasferire le vibrazioni sonore sulla persona, così da utilizzarle come vero e proprio trattamento, massaggio.
Sentivo che il suono doveva avere una valenza propria, al di là di quella largamente riconosciuta che ha nella sua forma più organizzata: la musica. Il suono, la vibrazione allo stato più primordiale, meno organizzato, meno teorizzato, composto, strutturato, è questo che da sempre richiama la mia attenzione: il suono come mero atto creativo, lontano dalle sovrastrutture mentali umane. Per atto creativo intendo quel processo di cui si possa osservare la nascita, il prendere forma, l’evolversi, la trasformazione, il decadimento, dal solo punto di vista, appunto dell’osservatore.
Quando parlo di suono, in qualche modo ho ben presente anche visivamente che sto parlando, paradossalmente, dell’unica materia di cui esso è costituito: il silenzio. E’ il silenzio, infatti, la materia prima plasmabile e plasmata nel momento in cui un’energia mette in movimento quel tessuto, quella rete assopita che con il suo oscillare darà vita al suono. Me lo immagino un po’ come un grande lenzuolo nero, entro il quale tutti viviamo, ignari della sua esistenza. Questo lenzuolo vibra, cambia le sue forme, esce dal suo stato di quiete, ogni volta che in esso venga a collimare un’energia che lo metta in moto. Le forme, gli increspi di questo tessuto, il suo movimento producono, anzi sono il suono nelle sue infinite probabilità espressive. La forma è sostanza.
Se il suono si propaga per forme, come possiamo ben vedere anche dalle geometrie che si formano sull’acqua eccitata dal suono della campana, allora il suono è materia. Per dirla con Tomatis: Il suono è presentato solitamente come un fenomeno vibratorio, ed è essenzialmente vero: Ciò implica l’esistenza di una trama che funga da vero supporto messo a disposizione del suono affinché si possa propagare. (da: Ascoltare l’Universo)
Questo è un concetto molto significativo. E’ il concetto entro il quale sta inscritta la possibilità dell’esistenza di una frase, quindi di un’esperienza, che vuole che “tutto è interconnesso”, “tutto è uno”. Quello che udiamo è creato dall’eccitazione di una stessa materia che vibra, trasporta, esplica ed esprime in suono ciò che in origine è energia cinetica, ne consegue che: questa materia è onnipresente, che il silenzio, il “vuoto” esistono solo in quanto “pienezza” di infinite possibilità, e mai come assenza totale di materia e vita come in genere percepiamo il vuoto, e come il vuoto è stato descritto dalla fisica classica materialista. Ne consegue inoltre che, in quanto pienezza , lo spazio, la distanza, non sono motivo di separazione o scollegamento.
“Noi facciamo parte, come entità solida, di una sostanza che è unica[…] cosa vuol dire universo? “Uno”, verso chi? Verso se stesso[…] Esiste[…] una sola sostanza, che ora è eterea, impalpabile, sottile[…] che alcuni chiamano spirito, quell’altro chiama anima, quell’altro chiama mente, ecc. questa sostanza […] universale e unica è il pensiero. Noi siamo l’esito solido di questa sostanza […] è sostanza che si trasfigura” (cit. da un intervento di Vittorio Marchi al Maurizio Costanzo Show. Link: http://www.youtube.com/watch?v=YsFrS_xTC9w).
Perché questa premessa? Perché forse mai, come suonando le ciotole tibetane, ho avuto modo di fare esperienza della materia sonora (il silenzio) che prende forma (il suono). Assistere a questo fenomeno è un po’ come partecipare all’origine della vita. “Osservare” i suoni colmi di armonici delle campane che tracciano infinite increspature nel tessuto materico del silenzio, è come testimoniare la possibilità che abbiamo noi di riconoscerci a nostra volta onde e increspature di una stessa tessitura. Ancora una volta l’importanza di questa osservazione sta nel togliere l’illusione, il velo di maya, che ci possa essere una qualche individualità separata da un’altra, che ci sia una qualche forma di vita che non sia interdipendente e interconnessa ad un’altra.
Sono sicuro che durante i trattamenti con le campane tutto ciò arrivi alle persone, che ne siano consapevoli o meno. L’esperienza si trasforma, quindi, in qualcosa di più di un massaggio sonoro: diventa invece partecipazione allo svelarsi di quella che è la realtà intima dell’esistenza, togliere il velo di maya, appunto, dare espressione allo yoga, l’unione, l’assenza di separatezza. Ecco cosa provoca, a mio avviso, questo grande senso di rilassatezza, questo percepirsi come interi, sentire di aver tolto il superfluo, l’inutile, questo senso di pulizia che viene spesso riferito dopo un trattamento. Partecipare al processo essenziale della creazione potrebbe farci sentire in maniera diversa?
Non riesco ad immaginare qualcosa di più adatto della dimensione sonora offerta dalle ciotole tibetane, a lasciare intravedere questa preziosa verità. Quale modo più dolce e sussurrato potremmo immaginare per porci difronte ad un evento così grandioso? Potremmo sostenere l’esperienza di questa verità, se non fossimo portati in uno stato di coscienza altro? Quello che succede durante le sessioni di campane è infatti un po’ questo: è un po’ come portare le persone in uno stato in cui la mente non offre più pensieri e resistenze, per far sì che possano “guardare” senza giudizio e senza l’interpretazione della mente dialogica lo svelarsi di verità profonde.
Si porta la persona nella condizione di poter accedere al proprio mondo inconscio, alla propria mente “destra”, la mente analogica, spaziale, la dimensione dove tutto è possibile e niente esclude l’altro. Si offre la chiave di accesso al luogo dove si “com-prende” nel senso di prendere con, e non si “es-clude”, o chiudere fuori: “e questo e quest’altro”, non “o questo o quello”. Solo così riesco ad immaginarmi l’eventualità di giungere ad una conoscenza così grande: passando per l’ampia porta di una visione, una suggestione, una evocazione, e non attraverso la speculazione logica, la deduzione o il calcolo.
Solo grazie a questo particolare stato di coscienza, vedo possibile l’accesso a zone nascoste di se’ che altrimenti sarebbero destinate a condizionare occultamente la nostra vita in termini spesso anche pesanti. Viviamo troppo spesso così identificati nei nostri pensieri e nelle nostre giornate che ci scordiamo che noi NON siamo i nostri pensieri e le nostre emozioni. Se Jung accosta il nostro inconscio a una condizione acquatica, noi viviamo costantemente sulla superficie di questa acqua.
Galleggiamo con la schiuma e gli scarti delle nostre esistenze, dei nostri pensieri, azioni, emozioni… e crediamo che quella materia galleggiante, sporca, agitata dai venti, dalle correnti, dalle onde, sia la nostra vita. Basterebbe calarsi un po’ più in basso, e ci accorgeremmo che poco sotto, tutto è calma, e vedremmo che quello in cui ci siamo identificati fin’ora non erano che pochi centimetri della superficie di una vastità immensa di pace. Paramahansa Yogananda usava spesso questa metafora per dare un’immagine molto efficace di quello che vuol dire identificarsi nella personalità individuale, invece che in quella collettiva, o la coscienza divina. Un passo di una sua preghiera, messa in musica, dice: Io son l’onda, rendimi mar!
Adesso riporterò la relazione di un caso che bene esemplifica l’importanza di offrire al cliente l’opportunità di perdere l’identificazione con la sua attuale condizione, anche fosse solo per il tempo di una sessione. “E’ stato sicuramente uno dei trattamenti più efficaci. Forse questo è dovuto anche al fatto che la persona trattata era in uno stato, per dirla così, di emergenza. Ho trattato questa donna proprio nella fase iniziale di una separazione. La relazione, che ha dato vita ad un bambino che adesso ha 11 anni, durava da più di venti anni, e come spesso accade nessuno dei due risparmia l’altro dall’investirlo con la propria rabbia, il proprio rancore e, sciaguratamente, non viene risparmiato neanche il bambino.
Questa donna, che chiamerò C, da mesi sta dormendo poche ore per notte, perché si sveglia sempre nel cuore della notte con un senso di angoscia e di nervosismo.
Ho fatto un trattamento di poco più di un’ora. Ho iniziato in posizione prona, perché ritenevo che così avrebbe potuto rilassarsi di più da subito e lasciare andare i pensieri. In posizione prona ho fatto la tecnica della “Liberazione dei pesci”.
In posizione supina ho fatto i tre centri mettendo vicino ai lati della testa altre due campane piccole sulle quali insistevo, delicatamente, con l’intenzione di pulire bene la mente dai pensieri. Una volta finito il trattamento me ne sono andato praticamente subito: mi sono solo accertato che C stesse bene e che potesse camminare senza perdere l’equilibrio. Ho scelto di non chiedere la restituzione dell’esperienza subito, perché non volevo che si andasse subito ad utilizzare la mente logica ed il linguaggio dialogico. Volevo che il lavoro continuasse.
C mi ha chiamato due giorni dopo il trattamento, chiedendo aiuto. C non è una persona che chiede aiuto, anzi, tende a isolarsi molto e gestire la sua vita in modo molto autonomo e solitario creando molto spesso sgomento nelle persone che le sono vicine. C mi chiede aiuto, perché sente molta rabbia, perché ha il petto e lo stomaco chiuso, e sente che sono chiusi per la rabbia che prova. Dice che i due giorni precedenti sono stati illuminanti.
Ha sentito l’effetto delle campane durare per due giorni. Ha sentito come un “nebbiolina invisibile” (parole sue) che la circondava, e che non permettevano alle provocazioni dell’ex compagno di “toccarla”. Ha sentito per due giorni come se quello che con rabbia le veniva indirizzato dal suo ex con frasi offensive ed atteggiamenti arroganti, fosse diretto a qualcun’ altra. Non si sentiva coinvolta e, anzi, rimaneva in un senso di pace e rilassatezza. C mi ha detto di essersi resa conto di come questa vita, il suo modo di viverla, di fare le cose, non fosse che un sogno nel quale si è identificata troppo, fino a credere che fosse l’unica realtà. C mi ha riferito che per la prima volta si è resa conto di essere una donna rabbiosa, di sentire la sua rabbia per la prima volta, e di vedere come la esprima quotidianamente praticamente in tutto quello che fa.”
Questo è quello che in psicologia si chiama “insight”, ovvero vedere in un lampo, senza passare da nessun tipo di costruzione analitica, quella che è la soluzione di un problema, o lo stato reale di una situazione. Nell’insight, o intuizione, tutto viene a galla come se la risposta a qualcosa fosse sempre stata là, compresa e risolta, e mancasse solo togliere il velo che la ricopriva. Nel counselling portare il cliente a vivere tanti piccoli momenti di questo tipo, è un’arte che basa le sue fondamenta su particolari tecniche di rimando e rispecchiamento, su una alta qualità di ascolto da parte del counsellor, su una permanente attenzione portata nel “qui e ora”. Intuizioni così rivelatrici, complete e sanificanti come quella sperimentata da C non mi era ancora mai capitato di vederle.
Porsi nella condizione di lasciarsi attraversare dalle vibrazioni, per quello che ho detto finora, è un po’ come permettersi di ricordare chi siamo veramente. Più di una volta, trattando qualcuno, ho avuto la netta sensazione di vederlo tornare a casa, vederlo “atterrare” nel corpo, scendere dal mondo dei pensieri incontrollati, per vivere il qui e ora delle sensazioni corporee: “Dal momento che l’uomo è nato dal suono, la sua essenza rimarrà sempre sonora.” ( Marius Shneider, La musica primitiva)
Del resto non è questo la Vipassana? Essere nel qui ed ora ancorando la propria consapevolezza alle sensazioni corporee è la tecnica di meditazione più antica e potente, e allo stesso tempo semplice che io conosca, insegnate dal Buddha. La vibrazione della campana che si propaga nel corpo altro non fa che facilitare e veicolare la consapevolezza di chi riceve verso le sensazioni fisiche, amplificate e portate al parossismo. Nel contempo, il suono cattura i pensieri per poi dissolverli, quasi come fosse un incantatore di serpenti, facilitando così il lavoro più arduo che ogni meditatore ben conosce: non far trascinare via la consapevolezza dal turbinio di pensieri indomiti. Le campane tibetane, se viste in quest’ottica, sono una specie di scorciatoia, un acceleratore di stati meditativi profondi.
Durante queste sessioni meditative particolari, la sensazione è che le campane entrino in risonanza con il proprio suono basico, con la particolare conformazione vibrazionale o armonica dell’individuo: quello che si cela dietro la maschera egoica. Sul sito del Gaynor Integrative Oncology di New York, un istituto fondato dall’oncologo Mitchell Gaynor, vengono riportate le seguenti parole: At the most fundamental level,” he says, “it”s a matter of shifting your perspective, of looking in a new way at the events and patterns in your life that used to cause stress and fear. I call it finding your “inner harmony” or your “inner peace,” and that has real physiological effects.” Meditation with chanting and bowls is simply the most powerful vehicle he knows to take us outside of our own egos, our own constricting fears. The patient who is at peace with himself, Gaynor believes, puts up the best fight against cancer.
Dico questo perché personalmente è come se, dopo aver ricevuto un po’ di trattamenti, sentissi più marcate, sicure, certe mie peculiarità. Sento più chiari i miei obbiettivi, e li sento più chiari perché è come se qualcuno avesse alzato il volume, e questi si fanno semplicemente sentire più forte di quanto non facciano solitamente. Le voci parassite e auto boicottanti che abitualmente si mettono fra me e i miei obbiettivi, fra me e i miei bisogni, fra me e quello che realmente ho voglia di fare sembrano momentaneamente messe in sottofondo, smorzate. Sento aumentato il senso del limite, del confine, del “tu puoi entrare fino qui, non oltre”.
E posso sentire questo, ripeto, grazie al fatto che è come se la mia personale vibrazione vitale fosse stata amplificata dalla simpatia con le vibrazioni armoniche delle campane. Forse a questo punto può essere utile vedere come viene definita la risonanza simpatica:
“Il fenomeno della risonanza è sfruttato in maniera singolare in alcuni strumenti musicali a corda come la viola di bordone, il sitar e la viola d’amore. Questi strumenti hanno un doppio ordine di corde: il primo – quello direttamente suonato dall’esecutore – funge da sorgente sonora, il secondo ordine di corde vibra “per simpatia”, entrando in risonanza a determinate frequenze. Queste frequenze sono particolarmente efficaci quando sono all’unisono, all’ottava e alla quinta giusta); ad esempio una corda che ha la sua fondamentale su un La (440 Hz) ecciterà la risonanza di una corda accordata su un Mi (330 Hz, quinta giusta più bassa rispetto al La) in quanto entrambe le corde hanno un ipertono in comune a 1320 Hz (che è la terza armonica del La e la quarta del Mi). In taluni casi la risonanza per simpatia non avviene su un secondo ordine di corde apposito, ma sulle corde libere (ad esempio questo avviene nella chitarra battente, nel pianoforte o nell’arpa) oppure sulle corde accoppiate (come ad esempio nella chitarra a dodici corde dove le corde, risuonando in ottava, rinforzano la loro intensità a vicenda).” (cit. wikipedia)
Quindi, si tratta di un effetto di risveglio che si ha nel momento in cui si viene eccitati da qualcosa che vibra alle nostre stesse frequenze. Nel caso delle campane tibetane, strumenti così ricchi di armonici, così pieni di note, è facile immaginare quanto possa essere ampio il range di risonanza che imprimono su un corpo vicino.
Questo effetto, molto probabilmente, fa si che interiormente si senta una maggiore definizione della propria reale “orchestra interiore”, qualcosa di totalmente dissimile, presumibilmente, da quelle cacofonie abituali con cui spesso si esprimono le nostre vite dissonanti e impacciate.
Ho avuto un’esperienza molto significativa durante una sessione in cui facevo un massaggio sonoro ad una ragazza. Mentre suonavo la campana più grande che ho, quella con il suono più profondo, è capitato che passasse in lontananza un aereo da turismo che aveva la nota base molto vicina a quella della ciotola. Chi ha un po’ di dimestichezza con gli strumenti musicali, forse in particolare con la chitarra, sa bene l’effetto che si ha quando lasciamo suonare due note molto simili fra loro.
Quello che prende vita è una vibrazione molto particolare e ben percepibile, che è la risultante della differenza fra le frequenze delle due note. Ebbene quando ho sentito passare l’aereo sopra la mia testa, sono rimasto allibito nel momento in cui ho sentito il suono della campana cambiare per trasformarsi in quelle vibrazioni appena descritte. Dopodiché, una volta passato l’aereo, il suono è tornato alla normalità. Riporto questa esperienza, perché mi sembra estremamente esemplificativa di quanto, senza che neanche ce ne rendiamo conto, siamo veramente immersi in un campo dove in continuazione ci relazioniamo a livello sottile con l’ambiente e le forme di vita circostanti.
Proviamo ad immaginare quanto più possa essere influente l’ambiente circostante, quanto meno è definito quello interno. Nel momento in cui le campane riportano sul giusto sfondo la nostra “accordatura” personale, viene spontaneo immaginare quanto possano definirsi le relazioni con l’ambiente, su contrasti più netti. Quello che risuona con noi sarà ancora più esaltato, mentre quello che stona con noi, sarà ancora più manifestamente in dissonanza e pertanto allontanato e respinto con forza e decisione.
Un’altra possibilità, molto stimolante, anche se non è quello che ho provato in prima persona, che può giustificare questa sensazione di confini più marcati che spesso ho percepito, è quella individuata da Mauro: “Il suono stimola simultaneamente la persona al suo interno, e risuona fuori dalla sfera corporea, sollecitando intensamente la percezione dei confini”. (Mauro Pedone – “Massaggio Sonoro® con le campane tibetane” , ed. Mediterranee, 2013).
Quale che sia la verità, se ce n’è una, quello che spero è che sempre più persone possano avere la possibilità di conoscere e sperimentare il suono e la magia di questi preziosi strumenti di cura, e che possano entrare nella quotidianità, come fattore di crescita e conoscenza di se’.
12/02/20014, Sovicille
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